Quando tutto, ma proprio tutto, si può chiamare innovazione, la parola ha sempre meno significato. Alf Rehn Oggi, a causa dell'emergenza sanitaria del COVID-19, stiamo assistendo, volenti o nolenti, ad un nuovo mutamento. Potremmo dire una rivoluzione silenziosa, ma improvvisa. Quasi brutale. Fino a ieri tutti noi non siamo stati capaci di stare al passo coi tempi, pur avendone la possibilità e tutti gli strumenti per potenziare la nostra cultura digitale (ne avevo parlato nell'articolo "Non è mai troppo tardi", il cui link è in fondo a questo articolo). I periodi di cambiamento, a maggior ragione quelli epocali come quello che stiamo vivendo, sono spesso occasione per ripensare ai propri modelli di business, agli strumenti e ai metodi di lavoro. Ma non solo, anche a semplici modalità per fruire di servizi nell'uso quotidiano. Adesso, (quasi) tutti si stanno adattando, giustamente, alle nuove abitudini e alle necessità emerse durante questo periodo di emergenza. Ma siamo sicuri che tutti abbiano una chiara strategia? La realtà attuale è perfettamente riassunta nella foto dell'articolo. Ispirato dal bellissimo libro "Innovare davvero" (recensione in fondo all'articolo), mi preme approfondire un argomento che, a mio modo di vedere, rappresenta il vero fulcro della situazione. Non solo di oggi, non di domani, ma dei prossimi 10 anni. Nello specifico mi è piaciuto in maniera particolare il modo dell'autore di dare un nome all'innovazione, quella più comune, che spesso non genera progresso, ma solo rumore e confusione. Alf Rehn parla di "teatrino dell'innovazione". Geniale. Da qui una riflessione: non è che, oggi, stiamo assistendo ad un vero e proprio "teatrino dell'innovazione"? In poche righe proverò a dare un significato a questo quesito - che appunto non essendo un'affermazione invita a riflettere - sintetizzando quattro aspetti fondamentali. Primo punto: la cultura aziendale. "La cultura organizzativa si nutre di strategia a colazione, pranzo e cena", diceva Peter Drucker. Come riporta Alf Rehn nel libro cultura viene dal latino "cultus", ovvero "cura" o "coltivazione". Il cui significato si riferisce ad una conoscenza radicata, profonda, di cui si fa quasi da portavoce. La cultura in azienda la si può paragonare alla personalità di una persona: è ciò che caratterizza e determina il resto delle azioni, delle strategie e dei comportamenti. La base di tutto. Ergo, senza una cultura, vera e naturale, difficilmente può nascere qualcosa di innovativo e di realmente utile per le persone. Secondo punto: lo scopo. "Per avere successo, le aziende devono riflettere di meno sull'innovazione in generale, e di più sullo scopo delle loro attività d'innovazione". Se pensiamo a questo periodo, si denota una vera - o presunta - aperture delle aziende alla tecnologia e all'innovazione. Benissimo. Questo, però, è dato dal fatto è che a questo punto è una scelta: innovare o morire (ne ho parlato qui). Diverso è avere uno scopo, una strategia nell'implementare nuovi servizi digitali, piattaforme di ultima generazione e tecnologie che possano davvero aiutare le persone e che possano realmente integrarsi con la natura e il posizionamento delle aziende. Non sarà certo una live su Instagram o una piattaforma video a sancire il successo di un servizio o di un prodotto. Terzo punto: risolvere un reale problema. Questo è un po' il fulcro del libro e dell'articolo. Rehn parla di "innovazioni profonde" e di "innovazioni che risolvono dei non-problemi". Le seconde potrebbero, forse, rappresentare la maggior parte delle iniziative che saranno lanciate nei prossimi, giorni, mesi e anni. Perché quando la direzione è definita (in riferimento alla digitalizzazione), ovviamente come è giusto che sia le aziende si adattano, ma molte di esse senza una strategia o senza determinare un reale impatto sulle persone. L'omologazione appiattisce l'offerta e si rischia di non distinguere più cosa è utile e cosa meno. In un mare di nuove iniziative, emergeranno quelle rivoluzionarie, utili e di altissima qualità. Quest'ultima parola è l'oggetto del prossimo paragrafo. Quarto punto: fornire un servizio di altissima qualità. "Quando tutto, ma proprio tutto, si può chiamare innovazione, la parola ha sempre meno significato". Questa frase mi piace molto. Dal momento che tutti urleranno la loro inclinazione al digitale, e i servizi offerti saranno a migliaia in ogni settore, è evidente che ci sarà un livellamento (era ora) - dovuto alla digitalizzazione di pmi, enti e professionisti - che porterà ad una necessità di avere qualità, oltre che quantità. I servizi digitali saranno quasi dati per scontati e, per forza di cose, verrà data maggiore rilevanza agli standard qualitativi e verranno sempre meno tollerati i disservizi e difficoltà nell'esperienza di acquisto o di fruizione di prodotti o servizi. In tutti i campi. Saremo sempre più prosumer (parola che viene da "producer" e" consumer"), in sostanza professional consumer. Concludo con un'importante aspetto, non citato ma indispensabile. In un mondo sempre più digitale e interconnesso, la competenza e la creatività delle persone farà sempre più la differenza. Perché il digitale è solo un veicolo e uno strumento per facilitare ogni cosa. Che pensiamo, creiamo e utilizziamo noi. Cosa vuoi fare adesso? Leggere l'ultima recensione "Innovare davvero". Leggere l'articolo "Non è mai troppo tardi". Curioso per natura, sportivo dalla nascita e testardo per origini. Leggo per crescere e per esplorare nuovi mondi. Amo il marketing, la vendita, il calcio e i viaggi. Adoro i Simpson e sono un divoratore di serie tv. Odio il piccante, la 'nduja, la cipolla e l'aglio. E per questo mi definiscono un calabrese atipico. |