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Il teatrino dell'innovazione

16/5/2020

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By Lorenzo Chininea
Quando tutto, ma proprio tutto, si può chiamare innovazione, la parola ha sempre meno significato.  Alf Rehn
Oggi, a causa dell'emergenza sanitaria del COVID-19, stiamo assistendo, volenti o nolenti, ad un nuovo mutamento. Potremmo dire una rivoluzione silenziosa, ma improvvisa. Quasi brutale.

Fino a ieri
tutti noi non siamo stati capaci di stare al passo coi tempi, pur avendone la possibilità e tutti gli strumenti per potenziare la nostra cultura digitale (ne avevo parlato nell'articolo "Non è mai troppo tardi", il cui link è in fondo a questo articolo).

I periodi di cambiamento, a maggior ragione quelli epocali come quello che stiamo vivendo, sono spesso occasione per ripensare ai propri modelli di business, agli strumenti e ai metodi di lavoro. Ma non solo, anche a semplici modalità per fruire di servizi nell'uso quotidiano.

Adesso, (quasi) tutti si stanno adattando, giustamente, alle nuove abitudini e alle necessità emerse durante questo periodo di emergenza. Ma siamo sicuri che tutti abbiano una chiara strategia?

La realtà attuale è perfettamente riassunta nella foto dell'articolo.

Ispirato dal bellissimo libro "Innovare davvero" (recensione in fondo all'articolo), mi preme approfondire un argomento che, a mio modo di vedere, rappresenta il vero fulcro della situazione. Non solo di oggi, non di domani, ma dei prossimi 10 anni.

Nello specifico mi è piaciuto in maniera particolare il modo dell'autore di dare un nome all'innovazione, quella più comune, che spesso non genera progresso, ma solo rumore e confusione. Alf Rehn parla di "teatrino dell'innovazione". Geniale.

Da qui una riflessione: non è che, oggi, stiamo assistendo ad un vero e proprio "teatrino dell'innovazione"?

In poche righe proverò a dare un significato a questo quesito - che appunto non essendo un'affermazione invita a riflettere - sintetizzando quattro aspetti fondamentali.


Primo punto: la cultura aziendale.
"La cultura organizzativa si nutre di strategia a colazione, pranzo e cena", diceva Peter Drucker. Come riporta Alf Rehn nel libro cultura viene dal latino "cultus", ovvero "cura" o "coltivazione". Il cui significato si riferisce ad una conoscenza radicata, profonda, di cui si fa quasi da portavoce. La cultura in azienda la si può paragonare alla personalità di una persona: è ciò che caratterizza e determina il resto delle azioni, delle strategie e dei comportamenti. La base di tutto. Ergo, senza una cultura, vera e naturale, difficilmente può nascere qualcosa di innovativo e di realmente utile per le persone.

Secondo punto: lo scopo.

"Per avere successo, le aziende devono riflettere di meno sull'innovazione in generale, e di più sullo scopo delle loro attività d'innovazione". Se pensiamo a questo periodo, si denota una vera - o presunta - aperture delle aziende alla tecnologia e all'innovazione. Benissimo. Questo, però, è dato dal fatto è che a questo punto è una scelta: innovare o morire (ne ho parlato qui). Diverso è avere uno scopo, una strategia nell'implementare nuovi servizi digitali, piattaforme di ultima generazione e tecnologie che possano davvero aiutare le persone e che possano realmente integrarsi con la natura e il posizionamento delle aziende. Non sarà certo una live su Instagram o una piattaforma video a sancire il successo di un servizio o di un prodotto.

Terzo punto: risolvere un reale problema. Questo è un po' il fulcro del libro e dell'articolo. Rehn parla di "innovazioni profonde" e di "innovazioni che risolvono dei non-problemi". Le seconde potrebbero, forse, rappresentare la maggior parte delle iniziative che saranno lanciate nei prossimi, giorni, mesi e anni. Perché quando la direzione è definita (in riferimento alla digitalizzazione), ovviamente come è giusto che sia le aziende si adattano, ma molte di esse senza una strategia o senza determinare un reale impatto sulle persone. L'omologazione appiattisce l'offerta e si rischia di non distinguere più cosa è utile e cosa meno. In un mare di nuove iniziative, emergeranno quelle rivoluzionarie, utili e di altissima qualità. Quest'ultima parola è l'oggetto del prossimo paragrafo.

Quarto punto: fornire un servizio di altissima qualità. "
Quando tutto, ma proprio tutto, si può chiamare innovazione, la parola ha sempre meno significato". Questa frase mi piace molto. Dal momento che tutti urleranno la loro inclinazione al digitale, e i servizi offerti saranno a migliaia in ogni settore, è evidente che ci sarà un livellamento (era ora) - dovuto alla digitalizzazione di pmi, enti e professionisti - che porterà ad una necessità di avere qualità, oltre che quantità. I servizi digitali saranno quasi dati per scontati e, per forza di cose, verrà data maggiore rilevanza agli standard qualitativi e verranno sempre meno tollerati i disservizi e difficoltà nell'esperienza di acquisto o di fruizione di prodotti o servizi. In tutti i campi.

Saremo sempre più prosumer (parola che viene da "producer" e" consumer"), in sostanza professional consumer.


Concludo con un'importante aspetto, non citato ma indispensabile.

​In un mondo sempre più digitale e interconnesso, la competenza e la creatività delle persone farà sempre più la differenza. Perché il digitale è solo un veicolo e uno strumento per facilitare ogni cosa. Che pensiamo, creiamo e utilizziamo noi.


Cosa vuoi fare adesso?

​Leggere l'ultima recensione "Innovare davvero".
Leggere l'articolo "
Non è mai troppo tardi".
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Curioso per natura, sportivo dalla nascita e testardo per origini. Leggo per crescere e per esplorare nuovi mondi. Amo il marketing, la vendita, il calcio e i viaggi.  Adoro i Simpson e sono un divoratore di serie tv. Odio il piccante, la 'nduja, la cipolla e l'aglio. E per questo mi definiscono un calabrese atipico.

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